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venerdì 19 giugno 2015

I nonni possono essere obbligati a mantenere i nipoti?


L’art. 147 del codice civile impone ai coniugi, in via primaria ed integrale, l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli.

Tale obbligo sussiste per il solo fatto di averli generati, e non deriva dal riconoscimento avvenuto in seguito ad un giudizio.

Quindi, per esempio, se un figlio è stato riconosciuto solo dalla madre, ed il riconoscimento da parte del padre non avviene spontaneamente, ma in seguito a dichiarazione giudiziale qualche anno dopo, il padre sarà obbligato a versare la sua quota di mantenimento anche per il periodo anteriore al riconoscimento di paternità avvenuto con dichiarazione giudiziale, proprio perché, come abbiamo detto, l’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati (Ved. Cass. n. 5652/2012).

Dal mese di febbraio 2014, è stato inserito nell’art. 147 del codice civile anche l’obbligo di assistere moralmente i figli, previsione, questa, che non era contenuta nella originaria formulazione del codice.

Naturalmente, possono capitare situazioni in cui uno dei genitori non possa (a causa di un reddito basso) o non voglia (semplicemente perché è uno sciagurato) far fronte a tali obblighi, che prima di essere giuridici, dovrebbero essere affettivi.

Cosa succede in questi casi, che purtroppo stanno capitando sempre più spesso?

Innanzi tutto, l’altro genitore deve far fronte a questi obblighi con tutte le sue risorse patrimoniali e reddituali.

In secondo luogo, quest’ultimo, qualora non dovesse farcela da solo, può anche agire contro il genitore inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle sue condizioni economiche.

Soltanto in via sussidiaria, quando cioè, pur avendo profuso tutto l’impegno possibile, uno dei genitori non riesca proprio a farcela, gli ascendenti di entrambi i genitori possono essere obbligati a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari per adempiere ai loro doveri nei confronti dei figli.

Gli ascendenti (che d’ora innanzi chiameremo “nonni”, perché di solito sono i genitori dei coniugi) possono essere obbligati sia nei casi in cui uno o entrambi i genitori non possano oggettivamente mantenere i propri figli, sia quando, uno o entrambi, non vogliano provvedere.

Lo scopo della legge, in questo caso, è di tutelare i minori con celerità.

Sappiamo quanto possa essere ridicolo parlare di celerità in Italia, specie con riferimento alla tutela dei diritti, ma questo è, in teoria, il senso della legge.

In che modo i nonni possono essere costretti?

Con un ricorso al Tribunale, con il quale si chiede al Giudice di obbligare i nonni a provvedere o a concorrere al mantenimento dei nipoti, una volta che sia stata accertata la incapacità o la impossibilità dei genitori di provvedere da soli alle esigenze dei figli.

L’obbligo sorge nei confronti di tutti i nonni, sia paterni che materni. 

Non si può, quindi, chiedere al giudice che siano obbligati, ad esempio, i nonni paterni con esclusione di quelli materni (Cass. 20509/2010).

Di regola, si calcola prima il contributo annuo da porre complessivamente a carico dei nonni.

Poi, in base alle dichiarazioni dei redditi, si procede al calcolo della somma proporzionale da attribuire a ciascuno di essi.

L’obbligo dei nonni è subordinato e sussidiario rispetto a quello primario dei genitori: cioè sorge solo in caso di impossibilità (intesa come mancanza di mezzi) da parte dei genitori, e non semplicemente in caso di inadempimento da parte di essi.

L’inadempimento, infatti, potrebbe anche non derivare da mancanza di disponibilità economiche, come nel caso di un genitore possidente ma semplicemente sciagurato, disinteressato ai figli.

Quindi, una mamma separata, laureata e proprietaria di immobili, non può ricorrere al Tribunale per chiedere che il suocero (anche se possidente) contribuisca al mantenimento del figlio se prima non ha agito nei confronti del marito inadempiente.

In definitiva, facendo ricorso ad un esempio che capita spesso nella pratica, quando il padre non può o non vuole mantenere i figli, la madre deve innanzi tutto far fronte all’obbligo del mantenimento con tutte le sue risorse patrimoniali e reddituali (cercare lavoro, vendere o fittare gli immobili di proprietà); in secondo luogo, deve agire contro il marito inadempiente.


Dopo tutto questo, solo in caso di assoluta impossibilità sorge l’obbligo dei nonni di contribuire al mantenimento previsto dall’art. 148 codice civile. 

domenica 7 giugno 2015

Modello di Ricorso per Decreto Ingiuntivo per prestazioni professionali avvocato


GIUDICE DI PACE DI SALERNO


Ricorso per decreto ingiuntivo


L’avv. Gennaro De Natale, nato a *******il ********, cf: *******************, in giudizio ex art. 86 cpc, (posta elettronica certificata  avvgennarodenatale@pec.ordineforense.salerno.it, fax numero 089.28.21.92), elett.te domiciliato presso il suo studio in Salerno alla via Ogliara n. 36,


p r e m e s s o


- Che, in forza di procura speciale rilasciata a margine dell’atto introduttivo, l’istante ha rappresentato e difeso il Sig. *****************, nato a ________________ il ________________, cf: _____________________, nel giudizio di equa riparazione da questi promosso dinanzi alla Corte d’Appello di Napoli, RGVG n. ________________, contro il Ministero della Giustizia;


- Che il valore della domanda, ai sensi dell’art. 10 cpc, era pari ad euro _________________;


- Che, con decreto n. ________________ RGVG, la Corte d’Appello di Napoli ha accolto il ricorso e condannato il Ministero della Giustizia a pagare in favore del _____________ la somma di € __________;


- Che il Ministero della Giustizia, a mezzo del servizio di Tesoreria della Banca d’Italia, ha emesso assegno circolare per € __________________ in favore di ______________;


- Che a quest’ultimo è stato consegnato il suddetto assegno;


- Che le prestazioni professionali svolte nel suddetto giudizio sono documentalmente provate;


- Che l’istante ha anticipato tutte le spese del giudizio;


- Che le spese anticipate ammontano ad euro ___________, i diritti sono pari ad euro ____________, e gli onorari, secondo il parere espresso dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno, possono liquidarsi in euro ____________, oltre spese generali al 12,50% pari ad euro _______________, per un totale di euro ___________;


- Che, pertanto, l’istante è creditore del Sig. ____________________ della somma complessiva di euro ______________ , oltre IVA e CNAP come per legge, per credito professionale;


- Che le voci riportate in parcella sono conformi ai minimi del tariffario forense relativo al periodo in cui sono state svolte le prestazioni;


- Che la Corte d’Appello di Napoli, nel suddetto decreto, ha liquidato all’istante la complessiva somma di euro _________________;


- Che il Sig. ______________ ha corrisposto all’istante, nel mese di dicembre 2013, la somma di euro ______________;


- Che l’istante, per il procedimento relativo al parere espresso dal Consiglio dell’Ordine, ha sostenuto una spesa pari ad euro _______, oltre ad euro ______________ per marche da bollo (____________ per l’istanza, oltre _______ + __________ per il parere), per un totale di euro ___________;


- Che, in definitiva, al ricorrente spettano le somme risultanti dal seguente riepilogo:


- Che, pertanto, il ricorrente è creditore, nei confronti del **************** della somma di euro ****************, oltre IVA e CNAP come per legge;


- Che la somma richiesta è dovuta in quanto l’obbligazione di un avvocato è di mezzi e non di risultato;


- Che, non essendo stato possibile comporre bonariamente la vertenza, si rende necessario adire le vie legali; tanto premesso, l’istante, come in atti rapp.to, difeso e dom.to,


c h i e d e


che l’Ill.mo Sig. Giudice di Pace di Salerno voglia emettere ingiunzione immediatamente esecutiva in danno del Sig. ___________________, dom.to in ____________ alla via ______________, per il pagamento in suo favore della somma di euro _________________,  oltre IVA, CNAP ed interessi legali dalla domanda al soddisfo, per le causali dedotte in narrativa, con condanna altresì del debitore Sig. _____________________ al pagamento delle spese e competenze delle presente procedura, come per legge.


Poiché vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, l’istante, ai sensi dell’art. 642 cpc, chiede espressamente che venga concessa la provvisoria esecuzione della emananda ingiunzione.  


Ai sensi della L. 488/99 e succ. mod., si dichiara che il valore della controversia è pari ad euro _________________ e che, pertanto, il valore del contributo unificato è pari ad euro ____________.


Si depositano, in copia,  i seguenti documenti:


1) Richiesta parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati;


2) Ricorso ex L. 89/01 alla Corte d’Appello di Napoli;


3) Consultazione portale telematico Volontaria giurisdizione per dettaglio attività svolte;


4) Decreto n. __________ RGVG della Corte d’Appello di Napoli;


5) Assegno consegnato al Sig. __________;


6) Nota spese;


7) Carta d’identità del Sig. ____________________.


Salerno, _______________

Avv. Gennaro De Natale


lunedì 13 aprile 2015

Anziano malato dimenticato al pronto soccorso.



Tempo fa, mi sono interessato ad una situazione di malasanità un po’ particolare. 

Non si è trattato, per fortuna,  dell’ennesimo  episodio  del malato che perde la vita a causa del cattivo funzionamento del sistema sanitario, ma di un caso, altrettanto importante,  di dignità calpestata.

Un signore anziano, che chiameremo Mario, è affetto da bronco pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO IV grado severo) e da cardiopatia ischemica cronica.

Queste patologie sono abbastanza serie; diciamo che, a seconda dei casi, comportano una notevole riduzione del funzionamento dell’apparato cardio-respiratorio.

Una mattina, a causa di un malore provocato da uno scompenso cardiaco, Mario  è costretto a chiamare l’ambulanza.

Il medico del 118, resosi conto delle precarie condizioni di salute del malato, decide per un ricovero urgente in ospedale.

Alle  ore 10,00 Mario entra nel reparto di pronto soccorso e viene sistemato su una lettiga in attesa del suo turno, sotto un condizionatore acceso dal quale fuoriesce aria fredda.

E’ anche febbricitante. Non può muoversi, perché è allettato da diversi anni.

Dopo un po’ di attesa, chiede al personale dell’ospedale la cortesia di cambiargli il pannolone che, nel frattempo,  si è sporcato, ma viene completamente ignorato.

I familiari, che aspettano in sala di attesa, si offrono di cambiare loro stessi il pannolone, ma dagli infermieri ottengono solo risposte evasive, frettolose e sgarbate.

Nel corso della giornata, i figli spiegano più volte al personale medico e paramedico  che il loro papà non è autonomo, utilizza pannoloni e ha bisogno di essere cambiato,  anche per evitare di aggravare ulteriormente la sofferenza delle piaghe da decubito.

Inoltre, chiedono agli infermieri di spostarlo dal getto di aria fredda del condizionatore.

Ma non succede niente. Rimane sempre lì, solo. Con il pannolone sporco di urina e feci.

Mario è malato nel corpo, ma è mentalmente lucido. Il pannolone sporco gli dà un fastidio enorme. Ma lo infastidiscono ancora di più gli sguardi delle persone che lo fissano con aria un po’ schifata a causa del cattivo odore che proviene dal suo lettino.

E si sente sempre più imbarazzato ed umiliato quando a guardarlo in quel modo sono alcuni suoi conoscenti intrufolatisi nel reparto per fare compagnia agli altri malati ricoverati.

Sì, proprio così! I suoi figli non li hanno fatti entrare, come è giusto che sia, ma quel giorno, nel reparto di pronto soccorso, ci sono i familiari di altri malati. Nemmeno loro dovrebbero trovarsi lì!

Il calvario di Mario termina alle ore 17,00, quando viene trasferito nel reparto di pneumologia  ancora nelle condizioni vergognose in cui si trovava 7 ore prima.  

A quel punto, può essere finalmente cambiato dai parenti. Non dagli infermieri.

Qualche mese dopo, il nostro amico, ritenendo di aver subito un trattamento degradante e lesivo della sua dignità sia di uomo che di malato, mi chiede di citare in giudizio l’ospedale, per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti.

Non si può negare che, a causa della disorganizzazione, della carenza di personale e di un po’  mancanza di umanità e di buona volontà, Mario ha effettivamente subìto una immobilità forzata in condizioni decisamente  disumane e poco igieniche per ben 7 ore!!

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU), pronunciandosi in materia di dignità, ha sostenuto che deve considerarsi  degradante quel trattamento che può causare alla persona una umiliazione o un avvilimento di una certa gravità.  

Infatti, il malato ha il diritto di  ricevere le cure e l’assistenza che si rendono necessarie in base al proprio stato di salute ed alla propria situazione personale, e tale diritto non può essere limitato o escluso da ragioni organizzative della struttura ospedaliera (poco personale, mancanza di spazio, ecc.).

L’Azienda Ospedaliera è responsabile delle azioni (e delle omissioni) compiute dai suoi dipendenti, e risponde direttamente della loro negligenza ed imperizia per le prestazioni effettuate (o non effettuate) nei confronti dei pazienti.

Quindi, il personale di un ospedale non può rifiutarsi (o ritardare) di accudire un malato ricoverato con la scusa che c’è poco personale, troppo lavoro, o altre amenità del genere.

In una situazione simile, la Corte di Cassazione (Sent. n. 39486 del 27/09/2006), giudicando il caso di una infermiera che aveva ritardato il cambio del pannolone ad un malato, ha affermato che l’infermiere che rifiuta di effettuare le operazioni di pulizia di un degente, che per ragioni di igiene e sanità devono essere compiute senza ritardo,  risponde del reato di omissione di atti d’ufficio (art. 328 cp).

Sempre secondo la Cassazione, in questi casi l’infermiere non può nemmeno addurre come scusante la vergogna dovuta alla differenza di sesso.

Pertanto, la struttura ospedaliera risponde anche dei danni causati dalle sue gravi carenze organizzative.

Questi principi, ormai pacifici, sono stati confermati più volte da vari Tribunali italiani.

Nel corso del giudizio abbiamo richiesto anche l’interrogatorio formale del rappresentante legale dell’ospedale, ma questi non si è presentato, per cui il giudice, anche da tale comportamento, ha tratto elementi di valutazione per la sua decisione.

L’azienda ospedaliera (forse per la vergogna) non ha neanche provato a difendersi.

Ovvero, per la precisione, si è costituita in giudizio, ma  i suoi legali non si sono mai presentati al processo.
Il Giudice di Pace, valutate le prove, ha accolto la nostra domanda, condannando l’azienda ospedaliera al risarcimento del danno.

Il giudice ha ritenuto che l’anziano paziente  sia stato trattato in modo indegno e contrario ai principi  etici e morali, con grave violazione del diritto alla salute in senso ampio e del diritto alla dignità umana.

Alla luce di quello che si sente dire, sempre più spesso, sul “Pronto Soccorso”, ultimamente ribattezzato “Lento Soccorso”, sono sempre più convinto che Mario abbia fatto bene a citare l’ospedale.

Non per i soldi. La sua vita non è cambiata con mille euro in più.

Ma per ricordare ad alcuni boriosi professoroni in camice bianco che la dignità umana va sempre rispettata, a prescindere dall’età, dallo stato di salute e dalla posizione sociale del malato.

Siamo in Italia, e certi episodi non dovrebbero verificarsi. Tuttavia, quando succedono, fanno arrabbiare.

Soprattutto perché gettano discredito anche sui medici e paramedici, e sono tanti,  che svolgono con diligenza, professionalità ed umanità il proprio lavoro.

Ritengo, pertanto, che siano sicuramente da condannare quegli episodi in cui i familiari dei malati, presi dall’esasperazione, minacciano, ingiuriano o, peggio, picchiano medici ed infermieri giudicati poco attenti, garbati o umani, pensando di ottenere, in tal modo, più rispetto e considerazione.

Credo, tuttavia, che siano altrettanto riprovevoli quei comportamenti arroganti e boriosi di una parte del ceto medico, che appaiono ancora più odiosi e vili perché compiuti con il camice bianco, in strutture che dovrebbero essere al servizio esclusivo del malato, e non centri di potere clientelare, in cui ci si riveste di forza ed autorità solo con i più deboli e gli inermi.


sabato 14 marzo 2015

DICHIARAZIONE DI DISSENSO ALLE CONCLUSIONI DELLA CTU EX ART. 445 BIS, COMMA 4, CPC



TRIBUNALE DI PISTOIA – SEZ. LAVORO

DOTT. ********* - RG ****/****

DICHIARAZIONE DI DISSENSO

ALLE CONCLUSIONI DELLA CTU


Per: Elena Pereira Perita Peraria, nata ad Agliana (PT) il **/**/19**, residente in (51039) Quarrata (PT), alla via Tito Livio Sempronio n. 14, CF: CALENZANO, rappresentata e difesa dall’avv. Gennaro De Natale, presso il cui studio elettivamente domicilia in virtù di mandato su foglio separato congiunto al presente atto mendiante contestuale deposito telematico, il quale chiede che le comunicazioni ex artt. 136, 137 e 170 cpc vengano effettuate a mezzo posta elettronica all’indirizzo __________, ovvero a mezzo fax al numero 0123456;


Contro

I.N.P.S. (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) in persona del Presidente pro tempore, dom.to per la carica presso al sede dell’Istituto in Roma, al Piazzale delle Nazioni EUR;


nonché


I.N.P.S. (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) in persona del legale rappresentante pt, elettivamente domiciliato in (51100) Pistoia, al Viale Adua n. 123;


Premesso


- Che il CTU dott. Tizio Caio concludeva per la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del beneficio richiesto nell’atto introduttivo, ma con decorrenza  1/12/2014 invece che dalla domanda;


- Che, a seguito del formale deposito dell’elaborato peritale, con decreto comunicato a mezzo Pec veniva fissato il termine perentorio per depositare atto di dissenso; tanto premesso, l’istante, come in atti rapp.ta, difesa e dom.ta, ai sensi dell’art. 445 bis, comma 4, cpc,


dichiara di contestare


le conclusioni della Consulenza Tecnica d’Ufficio rassegnate dal dott. Tizio Caio nella relazione del 11/11/1234, comunicata al sottoscritto difensore a mezzo PEC in data 14/15/1456, ed al contempo,


Si impegna


 

A depositare entro il termine massimo di 30 giorni dal deposito della presente dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, al contempo, i motivi della contestazione.




Salvis Iuribus


Pistoia,


Avv. Gennaro De Natale

mercoledì 11 marzo 2015

RISARCIMENTO DEL DANNO DA SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO



Recentemente, e tanto per cambiare, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato l’Italia a causa della situazione rovinosa in cui si trovano i detenuti ospitati nelle nostre carceri.

 

La Corte Europea, infatti,  ha riscontrato violazioni sistematiche dei diritti dei detenuti, che subiscono trattamenti inumani e degradanti a causa del sovraffollamento carcerario. 

 

I detenuti, infatti, hanno a disposizione meno di tre metri quadrati di spazio individuale (che dovrebbe essere il minimo), bagni (WC) non separati dal resto della cella, privi di finestre, senza acqua calda, celle concepite per un solo detenuto ma occupate da tre o più persone.

 

Emblematico, ad esempio, il caso di un detenuto affetto da incontinenza urinaria: era costretto a stare in una cella affollata e subire umiliazioni a causa della totale mancanza di intimità. Si può facilmente immaginare cosa significhi cambiarsi il pannolone più volte al giorno in questa situazione…

 

In un altro caso, un detenuto era costretto a trascorrere circa 20 ore al giorno sdraiato sul letto, a 50 cm di distanza dal soffitto, non per pigrizia, ma a causa della mancanza di spazio nella cella.

 

A causa di queste condizioni, numerosi detenuti hanno presentato dei ricorsi a Strasburgo, e la Corte Europea ha deciso (sentenza Torreggiani) che lo Stato italiano, entro il mese di giugno 2015, deve adottare le misure necessarie per rimediare alla situazione del sovraffollamento carcerario.

 

La Corte Europea ha gentilmente invitato il nostro solerte Stato, fra l’altro sempre attento e sensibile alla tutela dei diritti e della dignità dei propri cittadini, a fare fondamentalmente due cose:

 

1)      da una parte, predisporre delle misure strutturali che risolvano le cause del sovraffollamento carcerario;

 

2)      dall’altra parte, creare un rimedio interno che consenta ai detenuti di ottenere un risarcimento per i danni subiti  a causa di un trattamento inumano contrario all’art. 3 della Convenzione Europea (nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti).

 

Come ha risposto l’Italia alle sollecitazioni europee?

 

Con il DL n. 92/2014, convertito in legge n. 117/2014, con il quale è stata introdotta una riforma dell’ordinamento giudiziario che ha previsto dei rimedi con i quali il detenuto o l’internato può chiedere al giudice di porre rimedio alla situazione di grave pregiudizio nella quale si trova.

 

Prima di continuare, però, per chi non lo sapesse, precisiamo che

 

Detenuto è chi è stato condannato, con sentenza irrevocabile, ad una pena detentiva;

 

Internato è chi è stato privato della libertà personale in applicazione di una misura di sicurezza (colonia agricola, casa di cura e di custodia, ospedale psichiatrico giudiziario).

 

Fatta questa necessaria distinzione, possiamo continuare illustrando in maniera semplice e sintetica i rimedi previsti dalla legge.

 

 

Primo rimedio: art. 35 ter, commi 1 e 2, legge n. 354/1975 (ordinamento giudiziario).

 

Si rivolge a persone detenute o internate.

 

Abbiamo tre ipotesi:

 

1)      Detenuto o internato che si trova nelle condizioni inumane e degradanti che abbiamo sommariamente descritto sopra: Si può rivolgere al magistrato di sorveglianza per ottenere uno sconto della pena ancora da espiare. Lo sconto è pari  ad un giorno per ogni dieci di pregiudizio subito. Ad esempio: 570 giorni di carcere in condizioni disumane o degradanti  danno diritto a 57 giorni di sconto di pena.

 

2)      Detenuto o internato che abbia subito un pregiudizio inferiore a 15 giorni: Ha diritto ad un risarcimento monetario pari ad 8 (otto!) euro per ogni giorno di pregiudizio subito. Es.: pregiudizio di 14 giorni  è 14 x 8,00 = € 112,00.

 

3)      Detenuto o internato che ha subito un pregiudizio, ma lo sconto di pena è maggiore del residuo di pena che deve ancora scontare. Possiamo avere due ipotesi:

 

A)    ha diritto ad 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito. Es.: un pregiudizio di 640 giorni darebbe diritto ad uno sconto di 64 giorni; ma se restano da scontare solo 25 giorni, ha diritto ad 8,00 euro per ogni giorno di pregiudizio subito è 64 x 8,00 = 512,00. 

 

B)    Si può anche chiedere al magistrato di combinare il risarcimento monetario con lo sconto di pena. Per rimanere all’esempio precedente: pregiudizio di 640 giorni è sconto di pena di 64 giorni; poiché restano da scontare 25 gg., si potrebbero concedere 25 giorni di sconto di pena, e sui rimanenti (64 – 25 = 39) 39 giorni si calcola il risarcimento monetario è 39 x 8 = 312,00 euro.

 

L’istanza può essere presentata personalmente o tramite difensore.

 

Contro i provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza si può proporre reclamo al Tribunale di Sorveglianza entro 15 giorni dalla notifica.

 

 

Secondo rimedio: art. 35 ter, comma 3, legge n. 354/1975 (ordinamento giudiziario).

 

Si rivolge a persone in stato di libertà che:

 

1)      Hanno finito di scontare la pena detentiva;

 

2)      Hanno subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare: significa che dalla pena detentiva non si può detrarre il periodo di custodia cautelare perché, ad esempio, l’imputato è stato assolto.

   

In questi due casi, che, come abbiamo detto, presuppongono la fine della detenzione o della custodia cautelare, si può chiedere, personalmente o tramite avvocato, al Tribunale civile (non al Magistrato di sorveglianza) del capoluogo del distretto in cui risiede il ricorrente, il risarcimento in forma monetaria, di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito, entro 6 mesi dalla fine della pena detentiva (carcerazione) o della custodia cautelare.

lunedì 9 marzo 2015

FINANZIAMENTO PER ACQUISTO DI MOBILI E MANCATA CONSEGNA



Qualche anno fa, un amico ha acquistato a rate la camera da letto dei bambini, facendo ricorso ad  un finanziamento.

Poco dopo, a causa della crisi, il negozio dove è stato effettuato l’acquisto è fallito senza consegnare la merce al cliente.

Come se non bastasse, per colmo della sfortuna, la finanziaria che aveva concesso il prestito ha avuto la faccia tosta di richiedere al mio amico il pagamento delle rate del finanziamento, anche se non era avvenuta la consegna dei mobili acquistati.

Il povero ragazzo, quindi, era doppiamente disperato, non solo perché era rimasto senza i mobili che gli servivano ad arredare la stanzetta dei bambini, ma rischiava anche di pagare senza motivo il prestito solo per evitare una ingiunzione di pagamento.

Cosa succede in queste situazioni?

Il consumatore deve pagare il prestito anche se non ha ricevuto la merce, e così accollarsi il rischio di tutta l’operazione?

Oppure la finanziaria deve richiedere la restituzione delle somme al soggetto che effettivamente le ha ricevute, cioè al negoziante, anche se fallito?

Chi sopporta il rischio o la perdita finale? Il consumatore o la finanziaria?

Bene, in questi casi, che capitano abbastanza frequentemente, la Cassazione ha stabilito che se il contratto di finanziamento è stato stipulato per acquistare un bene, e questo non viene consegnato, va dichiarata la risoluzione sia del contratto di vendita che di quello di mutuo.

Infatti, i due contratti sono collegati, e se viene dichiarato invalido il contratto di vendita, necessariamente seguirà la stessa sorte anche il contratto di finanziamento.

Questo comporta che la finanziaria, per ottenere la restituzione della somma erogata, dovrà rivolgersi al negoziante e non al consumatore.

Anzi, il consumatore, non solo non dovrà più continuare a pagare le rate del prestito, ma avrà anche diritto alla restituzione delle somme già pagate.

Di solito, le finanziarie si difendono sostenendo che il consumatore può chiedere l’annullamento del finanziamento solo se tra la società che ha erogato il prestito ed il venditore esiste un rapporto di esclusiva.

Queste società, infatti,  preferiscono agire giudizialmente nei confronti dei malcapitati consumatori, in primo luogo perché questi hanno fornito garanzie ed informazioni (dichiarazioni dei redditi) in base alle quali è più semplice recuperare il credito, anche con il ricorso a strategie spesso scorrette; in secondo luogo perché, agendo nei confronti del venditore fallito, dovrebbero accontentarsi del pagamento dei crediti in moneta fallimentare, e quindi in misura notevolmente ridotta (sempre ammesso che riescano effettivamente a recuperare qualcosa).

Tuttavia, la sentenza  23 aprile 2009, n. 509/07, della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, interpretando la Direttiva 87/102 CEE, ha confermato che, in una simile situazione, l’esistenza di un accordo di esclusiva tra la finanziaria ed il fornitore (negoziante) non pregiudica il diritto del consumatore di agire contro il finanziatore per chiedere la risoluzione del contratto di credito e la restituzione delle somme già versate.

Ciò significa che, in casi come questo, se la finanziaria dovesse fare una ingiunzione di pagamento, il consumatore potrebbe giustamente opporsi e far dichiarare dal giudice l’invalidità del contratto.

A proposito … come è andata a finire la vicenda del mio amico?

Diciamo innanzi tutto che la finanziaria è stata molto scorretta anche nella gestione processuale della vicenda.
Infatti, approfittando della sua situazione di forza, e contrariamente a quanto stabilisce il Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005), ha notificato una ingiunzione di pagamento del Tribunale di Prato, mentre avrebbe dovuto rivolgersi al Tribunale di Salerno, luogo di residenza del consumatore.

Il decreto ingiuntivo è stato richiesto al giudice del luogo in cui la società finanziaria aveva la sede operativa allo scopo di scoraggiare qualsiasi iniziativa difensiva del consumatore,  residente invece nel Comune di Salerno.

Costringendo i consumatori a doversi difendere in altre città, spesso e volentieri abbastanza lontane, le finanziarie riversano sui consumatori dei costi aggiuntivi, pregiudicando così il diritto della parte debole alla difesa.

Questo comportamento, in effetti, è un mezzo di pressione psicologica per ottenere, in maniera quanto mai scorretta, il pagamento di somme in realtà non dovute, inducendo le persone ad abbandonare la difesa a causa dei costi eccessivi.

In ogni caso, tornando alla nostra vicenda, abbiamo proposto opposizione dinanzi al Tribunale di Prato, il quale ha dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo ottenuto dalla finanziaria, condannandola anche alle spese processuali.

Se ti interessa leggere la sentenza, clicca qui!


lunedì 9 febbraio 2015

COMUNE DI SALERNO E PRESCRIZIONE TARSU 2008



Il Comune di Salerno, tramite la Soget, sta inviando ai cittadini salernitani degli avvisi di accertamento con i quali richiede il pagamento della sanzione per dichiarazione infedele Tarsu, per le annualità dal 2008 al 2012.

Le richieste di questi due simpatici enti, a prima vista, sembrerebbero un tantino illegittime, come affermato negli ultimi giorni dai quotidiani locali.

Cerchiamo di scoprire se è vero e perché.

Gli avvisi relativi alla annualità 2008 dovrebbero essere prescritti a causa del decorso del termine quinquennale previsto dalla legge 296/2006, art.1, comma 161.

Il problema, però, è …. da quando inizia a decorrere questo termine?

Ce lo spiega la sentenza n. 1343/2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, che l’anno scorso ha risolto un  caso simile.

In sostanza, i giudici della CTP salernitana, ai sensi dell’art. 70, comma 1, D. LGS. n. 507/1993, hanno affermato che,

1) in caso di denuncia infedele o incompleta, l’ente può emettere un avviso di accertamento in rettifica entro il quinto anno a decorrere da quello entro il quale la denuncia andava effettuata;

2) non essendo contestata l’infedeltà dell’originaria denuncia, trattandosi di illecito permanente, l’obbligo di presentare una corretta dichiarazione si rinnova ad ogni nuovo esercizio finanziario, e, quindi,

3) poiché per l’anno 2008 (come stabilisce l’art. 70, comma 1, D. LGS. n. 507/1993) la dichiarazione andava presentata entro il 20 gennaio 2009, ne discende che il termine quinquennale di prescrizione è scaduto il 31 dicembre 2014.

Riassumendo: ai sensi dell’art. 1, comma 161, della legge n. 296/2006 e dell’art. 70, comma 1, del D. LGS n. 507/1993,

il contribuente doveva presentare la dichiarazione per l’anno 2008 entro il 20 gennaio 2009; quindi il termine quinquennale di prescrizione è scaduto il 31 dicembre 2014.

Ciò significa che, gli avvisi di accertamento notificati DOPO il 31 dicembre 2014 possono considerarsi prescritti.

In tutti gli altri casi di notifica avvenuta entro quella data, il termine di prescrizione quinquennale è stato rispettato, e quindi non vi sono rimedi per i contribuenti.

Nei casi in cui il termine sia scaduto, però, come ben sanno il Comune di Salerno e la Soget, la prescrizione va eccepita davanti al giudice, che nel caso in questione è proprio la Commissione Tributaria.

E le cause davanti alla Commissione Tributaria, come tutte le cause, costano.

E indovina un po’… in alcuni casi, il costo della causa potrebbe essere superiore al valore della stessa, quindi il gioco non sempre (o non per tutti) vale la candela!

Ma ciò è vero solo per il povero contribuente tartassato, non certamente per il  Comune che, seguendo l’esempio dello Stato, in casi come questo ha trovato una miniera d’oro, un modo semplice, illegittimo e vergognoso per battere cassa, tanto per rispettare l’italica tradizione.

In definitiva, il Comune di Salerno, confidando nel fatto che i costi della causa in cui si dovrebbe eccepire la prescrizione potrebbero essere equivalenti o superiori alla cifra che esso dovrebbe restituire, spera che i contribuenti paghino senza fare troppe storie.

Alcune persone, effettivamente, per evitare il costo della causa e tutti i noti fastidi della burocrazia italiana e salernitana, hanno preferito pagare e chiudere la questione.

Ma chi non volesse subire questo sopruso legalizzato, cosa può fare?

Vediamo quali rimedi abbiamo a disposizione.


Ricorso alla Commissione Tributaria.

Va proposto tramite un legale, e, come ti ho detto prima,  ha dei costi. Non mi soffermo oltre, basta rivolgersi al proprio avvocato di fiducia. Si trova anche materiale esplicativo su internet.


Istanza di autotutela.

E’ una domanda che si fa allo stesso ente dal quale proviene l’atto, nei casi in cui l’illegittimità sia palese.

Non è necessario rivolgersi ad un legale. Devi inviarla tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, allegando copia della carta d’identità.


Ricorda però che non vi è garanzia di accoglimento dell’istanza, e che i termini per il  ricorso al giudice non sono sospesi