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sabato 14 marzo 2015

DICHIARAZIONE DI DISSENSO ALLE CONCLUSIONI DELLA CTU EX ART. 445 BIS, COMMA 4, CPC



TRIBUNALE DI PISTOIA – SEZ. LAVORO

DOTT. ********* - RG ****/****

DICHIARAZIONE DI DISSENSO

ALLE CONCLUSIONI DELLA CTU


Per: Elena Pereira Perita Peraria, nata ad Agliana (PT) il **/**/19**, residente in (51039) Quarrata (PT), alla via Tito Livio Sempronio n. 14, CF: CALENZANO, rappresentata e difesa dall’avv. Gennaro De Natale, presso il cui studio elettivamente domicilia in virtù di mandato su foglio separato congiunto al presente atto mendiante contestuale deposito telematico, il quale chiede che le comunicazioni ex artt. 136, 137 e 170 cpc vengano effettuate a mezzo posta elettronica all’indirizzo __________, ovvero a mezzo fax al numero 0123456;


Contro

I.N.P.S. (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) in persona del Presidente pro tempore, dom.to per la carica presso al sede dell’Istituto in Roma, al Piazzale delle Nazioni EUR;


nonché


I.N.P.S. (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) in persona del legale rappresentante pt, elettivamente domiciliato in (51100) Pistoia, al Viale Adua n. 123;


Premesso


- Che il CTU dott. Tizio Caio concludeva per la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del beneficio richiesto nell’atto introduttivo, ma con decorrenza  1/12/2014 invece che dalla domanda;


- Che, a seguito del formale deposito dell’elaborato peritale, con decreto comunicato a mezzo Pec veniva fissato il termine perentorio per depositare atto di dissenso; tanto premesso, l’istante, come in atti rapp.ta, difesa e dom.ta, ai sensi dell’art. 445 bis, comma 4, cpc,


dichiara di contestare


le conclusioni della Consulenza Tecnica d’Ufficio rassegnate dal dott. Tizio Caio nella relazione del 11/11/1234, comunicata al sottoscritto difensore a mezzo PEC in data 14/15/1456, ed al contempo,


Si impegna


 

A depositare entro il termine massimo di 30 giorni dal deposito della presente dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, al contempo, i motivi della contestazione.




Salvis Iuribus


Pistoia,


Avv. Gennaro De Natale

mercoledì 11 marzo 2015

RISARCIMENTO DEL DANNO DA SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO



Recentemente, e tanto per cambiare, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato l’Italia a causa della situazione rovinosa in cui si trovano i detenuti ospitati nelle nostre carceri.

 

La Corte Europea, infatti,  ha riscontrato violazioni sistematiche dei diritti dei detenuti, che subiscono trattamenti inumani e degradanti a causa del sovraffollamento carcerario. 

 

I detenuti, infatti, hanno a disposizione meno di tre metri quadrati di spazio individuale (che dovrebbe essere il minimo), bagni (WC) non separati dal resto della cella, privi di finestre, senza acqua calda, celle concepite per un solo detenuto ma occupate da tre o più persone.

 

Emblematico, ad esempio, il caso di un detenuto affetto da incontinenza urinaria: era costretto a stare in una cella affollata e subire umiliazioni a causa della totale mancanza di intimità. Si può facilmente immaginare cosa significhi cambiarsi il pannolone più volte al giorno in questa situazione…

 

In un altro caso, un detenuto era costretto a trascorrere circa 20 ore al giorno sdraiato sul letto, a 50 cm di distanza dal soffitto, non per pigrizia, ma a causa della mancanza di spazio nella cella.

 

A causa di queste condizioni, numerosi detenuti hanno presentato dei ricorsi a Strasburgo, e la Corte Europea ha deciso (sentenza Torreggiani) che lo Stato italiano, entro il mese di giugno 2015, deve adottare le misure necessarie per rimediare alla situazione del sovraffollamento carcerario.

 

La Corte Europea ha gentilmente invitato il nostro solerte Stato, fra l’altro sempre attento e sensibile alla tutela dei diritti e della dignità dei propri cittadini, a fare fondamentalmente due cose:

 

1)      da una parte, predisporre delle misure strutturali che risolvano le cause del sovraffollamento carcerario;

 

2)      dall’altra parte, creare un rimedio interno che consenta ai detenuti di ottenere un risarcimento per i danni subiti  a causa di un trattamento inumano contrario all’art. 3 della Convenzione Europea (nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti).

 

Come ha risposto l’Italia alle sollecitazioni europee?

 

Con il DL n. 92/2014, convertito in legge n. 117/2014, con il quale è stata introdotta una riforma dell’ordinamento giudiziario che ha previsto dei rimedi con i quali il detenuto o l’internato può chiedere al giudice di porre rimedio alla situazione di grave pregiudizio nella quale si trova.

 

Prima di continuare, però, per chi non lo sapesse, precisiamo che

 

Detenuto è chi è stato condannato, con sentenza irrevocabile, ad una pena detentiva;

 

Internato è chi è stato privato della libertà personale in applicazione di una misura di sicurezza (colonia agricola, casa di cura e di custodia, ospedale psichiatrico giudiziario).

 

Fatta questa necessaria distinzione, possiamo continuare illustrando in maniera semplice e sintetica i rimedi previsti dalla legge.

 

 

Primo rimedio: art. 35 ter, commi 1 e 2, legge n. 354/1975 (ordinamento giudiziario).

 

Si rivolge a persone detenute o internate.

 

Abbiamo tre ipotesi:

 

1)      Detenuto o internato che si trova nelle condizioni inumane e degradanti che abbiamo sommariamente descritto sopra: Si può rivolgere al magistrato di sorveglianza per ottenere uno sconto della pena ancora da espiare. Lo sconto è pari  ad un giorno per ogni dieci di pregiudizio subito. Ad esempio: 570 giorni di carcere in condizioni disumane o degradanti  danno diritto a 57 giorni di sconto di pena.

 

2)      Detenuto o internato che abbia subito un pregiudizio inferiore a 15 giorni: Ha diritto ad un risarcimento monetario pari ad 8 (otto!) euro per ogni giorno di pregiudizio subito. Es.: pregiudizio di 14 giorni  è 14 x 8,00 = € 112,00.

 

3)      Detenuto o internato che ha subito un pregiudizio, ma lo sconto di pena è maggiore del residuo di pena che deve ancora scontare. Possiamo avere due ipotesi:

 

A)    ha diritto ad 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito. Es.: un pregiudizio di 640 giorni darebbe diritto ad uno sconto di 64 giorni; ma se restano da scontare solo 25 giorni, ha diritto ad 8,00 euro per ogni giorno di pregiudizio subito è 64 x 8,00 = 512,00. 

 

B)    Si può anche chiedere al magistrato di combinare il risarcimento monetario con lo sconto di pena. Per rimanere all’esempio precedente: pregiudizio di 640 giorni è sconto di pena di 64 giorni; poiché restano da scontare 25 gg., si potrebbero concedere 25 giorni di sconto di pena, e sui rimanenti (64 – 25 = 39) 39 giorni si calcola il risarcimento monetario è 39 x 8 = 312,00 euro.

 

L’istanza può essere presentata personalmente o tramite difensore.

 

Contro i provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza si può proporre reclamo al Tribunale di Sorveglianza entro 15 giorni dalla notifica.

 

 

Secondo rimedio: art. 35 ter, comma 3, legge n. 354/1975 (ordinamento giudiziario).

 

Si rivolge a persone in stato di libertà che:

 

1)      Hanno finito di scontare la pena detentiva;

 

2)      Hanno subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare: significa che dalla pena detentiva non si può detrarre il periodo di custodia cautelare perché, ad esempio, l’imputato è stato assolto.

   

In questi due casi, che, come abbiamo detto, presuppongono la fine della detenzione o della custodia cautelare, si può chiedere, personalmente o tramite avvocato, al Tribunale civile (non al Magistrato di sorveglianza) del capoluogo del distretto in cui risiede il ricorrente, il risarcimento in forma monetaria, di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito, entro 6 mesi dalla fine della pena detentiva (carcerazione) o della custodia cautelare.

lunedì 9 marzo 2015

FINANZIAMENTO PER ACQUISTO DI MOBILI E MANCATA CONSEGNA



Qualche anno fa, un amico ha acquistato a rate la camera da letto dei bambini, facendo ricorso ad  un finanziamento.

Poco dopo, a causa della crisi, il negozio dove è stato effettuato l’acquisto è fallito senza consegnare la merce al cliente.

Come se non bastasse, per colmo della sfortuna, la finanziaria che aveva concesso il prestito ha avuto la faccia tosta di richiedere al mio amico il pagamento delle rate del finanziamento, anche se non era avvenuta la consegna dei mobili acquistati.

Il povero ragazzo, quindi, era doppiamente disperato, non solo perché era rimasto senza i mobili che gli servivano ad arredare la stanzetta dei bambini, ma rischiava anche di pagare senza motivo il prestito solo per evitare una ingiunzione di pagamento.

Cosa succede in queste situazioni?

Il consumatore deve pagare il prestito anche se non ha ricevuto la merce, e così accollarsi il rischio di tutta l’operazione?

Oppure la finanziaria deve richiedere la restituzione delle somme al soggetto che effettivamente le ha ricevute, cioè al negoziante, anche se fallito?

Chi sopporta il rischio o la perdita finale? Il consumatore o la finanziaria?

Bene, in questi casi, che capitano abbastanza frequentemente, la Cassazione ha stabilito che se il contratto di finanziamento è stato stipulato per acquistare un bene, e questo non viene consegnato, va dichiarata la risoluzione sia del contratto di vendita che di quello di mutuo.

Infatti, i due contratti sono collegati, e se viene dichiarato invalido il contratto di vendita, necessariamente seguirà la stessa sorte anche il contratto di finanziamento.

Questo comporta che la finanziaria, per ottenere la restituzione della somma erogata, dovrà rivolgersi al negoziante e non al consumatore.

Anzi, il consumatore, non solo non dovrà più continuare a pagare le rate del prestito, ma avrà anche diritto alla restituzione delle somme già pagate.

Di solito, le finanziarie si difendono sostenendo che il consumatore può chiedere l’annullamento del finanziamento solo se tra la società che ha erogato il prestito ed il venditore esiste un rapporto di esclusiva.

Queste società, infatti,  preferiscono agire giudizialmente nei confronti dei malcapitati consumatori, in primo luogo perché questi hanno fornito garanzie ed informazioni (dichiarazioni dei redditi) in base alle quali è più semplice recuperare il credito, anche con il ricorso a strategie spesso scorrette; in secondo luogo perché, agendo nei confronti del venditore fallito, dovrebbero accontentarsi del pagamento dei crediti in moneta fallimentare, e quindi in misura notevolmente ridotta (sempre ammesso che riescano effettivamente a recuperare qualcosa).

Tuttavia, la sentenza  23 aprile 2009, n. 509/07, della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, interpretando la Direttiva 87/102 CEE, ha confermato che, in una simile situazione, l’esistenza di un accordo di esclusiva tra la finanziaria ed il fornitore (negoziante) non pregiudica il diritto del consumatore di agire contro il finanziatore per chiedere la risoluzione del contratto di credito e la restituzione delle somme già versate.

Ciò significa che, in casi come questo, se la finanziaria dovesse fare una ingiunzione di pagamento, il consumatore potrebbe giustamente opporsi e far dichiarare dal giudice l’invalidità del contratto.

A proposito … come è andata a finire la vicenda del mio amico?

Diciamo innanzi tutto che la finanziaria è stata molto scorretta anche nella gestione processuale della vicenda.
Infatti, approfittando della sua situazione di forza, e contrariamente a quanto stabilisce il Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005), ha notificato una ingiunzione di pagamento del Tribunale di Prato, mentre avrebbe dovuto rivolgersi al Tribunale di Salerno, luogo di residenza del consumatore.

Il decreto ingiuntivo è stato richiesto al giudice del luogo in cui la società finanziaria aveva la sede operativa allo scopo di scoraggiare qualsiasi iniziativa difensiva del consumatore,  residente invece nel Comune di Salerno.

Costringendo i consumatori a doversi difendere in altre città, spesso e volentieri abbastanza lontane, le finanziarie riversano sui consumatori dei costi aggiuntivi, pregiudicando così il diritto della parte debole alla difesa.

Questo comportamento, in effetti, è un mezzo di pressione psicologica per ottenere, in maniera quanto mai scorretta, il pagamento di somme in realtà non dovute, inducendo le persone ad abbandonare la difesa a causa dei costi eccessivi.

In ogni caso, tornando alla nostra vicenda, abbiamo proposto opposizione dinanzi al Tribunale di Prato, il quale ha dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo ottenuto dalla finanziaria, condannandola anche alle spese processuali.

Se ti interessa leggere la sentenza, clicca qui!